giovedì 15 settembre 2022

Viaggio al termine della notte di Céline: breve recensione

Se dovessi indicare il tema decisivo di un libro che fece scandalo sin dalla sua pubblicazione, Viaggio al termine della notte di Céline, sceglierei reducismo. Il protagonista del romanzo, Bardamu, è reduce fin dall'inizio. Prima è reduce dalle sue illusioni giovanili, che svaniscono con l'arruolamento volontario nell'esercito francese avviato alla Grande Guerra; poi è reduce dalla guerra medesima, che lo lascia malato, spossato, confuso e cinico, soprattutto cinico; poi è reduce dall'avventura coloniale, dove sperimenta l'avidità e le bassezze di un mondo quasi irreale; quindi dall'industria alienante della Ford a Detroit; infine dalla professione che esercita di malavoglia nella periferia parigina come medico condotto malpagato e, successivamente, in una clinica per alienati, come un secolo fa si chiamavano le persone affette da disturbi psichiatrici. Questo è il viaggio che Bardamu compie fino al termine della notte, scendendo ogni volta un gradino verso la solitudine e la rassegnazione, dentro un buio appena rischiarato da qualche incontro, che comunque non basta e non redime. Come quello, in Africa, con Alcide, che a Bardamu non è simpatico,  ma che dura una vita di rinunce per puro altruismo verso una nipote lontana, che mai ha conosciuto; come quello con Molly, a Detroit, pura nonostante tutto, ingenua, disinteressata, accogliente. Per il resto, tutto è dolore, tutto è abiezione, tutto è declino e rovina. Mentre si tira avanti, solo per sperimentare l'inutilità di ogni sforzo, di ogni genuina ambizione di bene. Fino alla tragica scomparsa di Leon Robinson, curioso antieroe, vigliacco per eccellenza, che con Bardamu si ritrova un poco ovunque, condividendone le sconfitte. Che sia un grande romanzo, questo di Celine, non v'è dubbio. Che valga invece la pena di leggerlo, beh, qualche dubbio mi resta. Certe descrizioni, quelle terribili delle condizioni di vita nella giungla per esempio, sono troppo accurate, ripetitive, sfiancanti. E il romanzo stesso, a lungo andare sfianca, lasciando il lettore, almeno il lettore che io sono stato, se non più povero, certo non più ricco. Nessun conforto, nessuna speranza. Un nichilismo spinto e sconsolante. Una formidabile critica sociale ed esistenziale, quella c'è nel romanzo, senza, però, la minima via d'uscita. E questo mi pare un grande, grandissimo limite.

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